Dal sogno Champions alla crisi delle idi di marzo. Il cammino di Eusebio Di Francesco si ferma ad Oporto dopo una serie infinita di alti e bassi. In Portogallo, la strada del tecnico abruzzese si separa da quella della Roma, nell’attesa di nuove sfide. Fatale l’involuzione della squadra nelle ultime uscite, con i giallorossi in continuo affanno contro Bologna e Frosinone, prima di incappare nella disfatta del derby. La nottata portoghese ha condannato definitivamente “Di Fra”, nonostante la squadra si fosse schierata dalla sua parte.

I ventidue mesi in cui Di Francesco ha seduto sulla panchina capitolina si concludono senza alcun trofeo in bacheca, confermando la maledizione della Roma americana. Tuttavia, nessuno dei suoi predecessori nell’era di Pallotta è riuscito a lasciare un segno così tangibile. Con Eusebio, infatti, i giallorossi si sono calati in una nuova dimensione, inedita per la loro tradizione, volta principalmente a focalizzarsi sulle competizioni nazionali. Per la prima volta dai tempi di Falcao, la Roma ha guardato all’Europa non più con i timori reverenziali di una Cenerentola invitata ad un ballo di gala senza l’abito delle grandi occasioni. Gara dopo gara, la squadra ha iniziato a comprendere il proprio potenziale e a sognare senza porsi limiti.

Miracolo numero uno: superare il girone della morte con Chelsea, Atletico Madrid e Qarabag da prima classificata, giocando a viso aperto a Stanford Bridge e demolendo gli inglesi all’Olimpico con una lezione di calcio. Secondo step: superare lo scoglio degli ottavi di finale. Battuto lo Shakhtar Donetsk nel doppio confronto, grazie alla rete in trasferta di Under e alla marcatura di Dzeko tra le mura amiche, vanificando la vittoria casalinga degli ucraini. Poi la madre delle imprese: ribaltare un 4-1 rimediato al Camp Nou dal Barcellona. C’è rimonta e rimonta. Mai nella loro recente storia i blaugrana erano stati travolti senza replica alcuna. Quella che il 10 aprile 2018 si è abbattuta sull’Invincibile Armata di Valverde è stata una tempesta giallorossa a tutto campo, capace di annichilire il possesso palla catalano, anestetizzandolo con intensità e movimenti continui senza palla. È stata la serata dell’apoteosi del credo calcistico di Di Francesco: Dzeko, De Rossi e Manolas i tre nomi capaci di consegnare alla città una semifinale attesa da 34 anni. Dopo i tre miracoli, una mezza prodezza, tra rabbia e rimpianti, con la doppia sfida al Liverpool terminata con il rammarico di un rigore clamoroso non assegnato ai giallorossi che li avrebbe condotti, forse, verso la finalissima. Una storia simile alla finale 1984, con quella carica sul portiere Tancredi non ravvisata e poi risultata decisiva nel successo dei Reds.

Le prodezze di Di Francesco si sono esaurite qui. Colpa dell’avventato cambiamento imposto dalla dirigenza giallorossa in estate. Tanti, troppi i mutamenti strutturali. Eusebio non è riuscito a dare un’identità alla sua nuova creatura, ma ha sempre cercato di trasmettere le sue idee fino in fondo, anche quando tutto sembrava remargli contro. Ha lottato fino ad Oporto, finché la sorte ed il Var lo hanno definitivamente affossato. Ma l’eredità che lascia ai romanisti è degna di un grandissimo condottiero.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 07 marzo 2019 alle 21:30
Autore: Federico Mariani
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