Stefano Fabrizi, attore di professione, oltre venti anni di carriera alle spalle tra cinema, teatro e televisione. Tra i lavori più recenti, “Romolo” in “Suburra” la serie. Tifoso della Roma. “Viscerale”. Parliamo di Roma?
“Perché, io? Come nasce l’idea di interpellarmi?”.
Lei non è lo stesso Stefano che compare sul finale del documentario della Rai sul Commando Ultrà Curva Sud di oltre 40 anni fa, presente da tempo su YouTube? Era più giovane, all’epoca.
“Sì, sono io. E, confermo, eravamo piccoli”.
L’intento è quello di sentire gente romanista in una settimana particolare per ogni tifoso. Capire l’amore per questa squadra, gli stati d’animo. Cosa smuove questo sentimento.
“Semplice. La Roma sarà per sempre un amore viscerale. Fa parte di me, della mia vita. È così, sarà sempre così”.
Ma non ne ha mai parlato pubblicamente, però.
“No, è la prima volta. E in passato di inviti ne ho declinati parecchi, anche per un paio di libri”.
Come mai stavolta ha accettato?
“Ho detto sì di getto. Mi sono sentito di farlo. In passato non ho mai voluto legare la mia carriera artistica alla Roma. Non l’ho mai voluta usare. È una cosa mia, intima. È come se qualcuno chiede a lei di fare un’intervista sulla sua famiglia”.
La Roma questo rappresenta? Una famiglia?
“La curva, lo stadio, gli amici, la Roma: è stata la mia infanzia. Non la potrei mai cambiare e me la porterò appresso per tutta la vita. I rapporti di amicizia non sono mai mutati, vengono alimentati di continuo anche oggi. Ogni 9 gennaio, di ogni anno, dal 1977, nel giorno del compleanno del Commando ci riuniamo. Io ne ho fatto parte del Cucs, io come altre due-trecento persone. Però, specifico…”.
Cosa?
“C’è chi è stato sempre là ed è sicuramente più deputato di me a parlarne del gruppo. Che ha fatto la storia. Io l’ho vista da vicino questa storia. Anche vissuta. È stata la mia famiglia. Un’estate andammo a fare una vacanza a Riccione. Non era solo la partita, la domenica, il Commando era il quotidiano di tutti noi. Però ad un certo punto mi sono allontanato dallo stadio, dalla curva, il lavoro non mi ha permesso di poterci stare”.
Quando ha smesso di frequentare la curva?
“Fino al 1985, circa, poi negli anni successivi sono tornato allo stadio in tanti momenti diversi. Di recente anche sono stato abbonato, ma in Tevere. Fino al 2017, secondo anno del secondo Spalletti. Però la seguo sempre. In tv a casa, in giro, ovunque”.
E quando lavora? Le sarà capitato di andare in scena contemporaneamente ad una partita della Roma o durante le riprese di un film.
“È capitato. L’ho vista ovunque, la Roma. A Verona, con i veronesi. A Ischia quel Napoli-Roma nell’anno dello scudetto. Noi ad un passo dal titolo, loro ad un passo dalla B. Poi, ovvio, il comportamento cambia anche in base alla situazioni. Ma l’orgoglio è sempre lo stesso di sempre: petto in fuori. Quando lavoro a teatro, inoltre, – compatibilmente con il potere contrattuale – guardo prima il calendario e poi decido le date”.
Il calendario della Serie A?
“Certo, quello. Cerco sempre di aspettare che vengano sorteggiate le giornate del campionato e poi in base a quelle cerco di incastonare i miei impegni. Non sempre è possibile, purtroppo. Ma spesso lo faccio. Pensi che ero riuscito pure a sistemare il prossimo derby, se non fosse che è saltato tutto per via della pandemia”.
Ecco, l’ha nominato. Venerdì c’è il derby.
“È una partita che non vorrei ci fosse. È già un’ansia qualsiasi partita della Roma. Questa è diversa, come è ovvio. Può essere provinciale come cosa, ma è una gara che eviterei volentieri. La vivo con uno stato d’animo non raccontabile. Ho le mie fisse quando mi sistemo davanti la tv. Tolgo l’audio, indosso una tuta che dico io. Forse viverlo allo stadio è meglio. Sei un po’ distratto. Viverla a casa è un’esperienza quasi terapeutica. Ah, ovviamente loro sono favoriti…”.
Sarà la prima stracittadina della storia senza tifosi. Come la immagina?
“Bah, ovviamente mancherà una componente importante. Il derby, lo stadio, non sono soltanto i novanta minuti con lo sguardo rivolto verso il campo. Ma è socializzare, stare insieme, condividere determinate emozioni”.
L’amore per la Roma da dove nasce?
“Dalla famiglia. Mio padre era della Roma, tranne un mio zio che era del Torino per via del mito del Grande Torino. Papà, di San Lorenzo, era amico di Alberto Ginulfi, storico portiere della Roma. Mi portò mio padre allo stadio la prima volta”.
Che partita era?
“In notturna, trofeo Picchi con Inter e Cagliari. Poi un Roma-Cagliari con Gigi Riva. La prima volta che andai in curva era la Nord. Vidi la Sud e da quel momento decisi di fare il grande passo. Iniziai a frequentarla. Erano i primi Anni 70”.
Per poi arrivare al 1977.
“Il Commando nasce in un momento storico particolare anche per il paese. Erano gli anni di piombo, il rapimento di Moro, le brigate rosse. Era un’epoca di cambiamenti, di agitazioni. La curva rappresentava un microcosmo della società. Persone di varia estrazione una affianco all’altra per ogni partita. Oggi le cose sono cambiate, ma ad ogni livello. Calcistico e non. Il Commando è storia. La storia di tanti. Della Roma. E anche la mia. Nasce dall’amore per la Roma, ma è andato oltre la Roma”.
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